Acrobax
Il precariato non distrugge, trasforma!
Il nostro spazio, occupato il 20 Novembre 2002, è da sempre uno strumento di cui, come precari e precarie, ci
siamo dotati per trasformare la nostra condizione, uscire dal ricatto sulle nostre vite, produrre un’alterità possibile
riappropriandoci di spazi e tempo.
Uno spazio che potesse essere ricompositivo di quella frammentazione che la precarietà produce, azzerando diritti
e livellendo verso il basso tutte le nostre vite.
Uno spazio contro lo sfruttamneto dentro e oltre il lavoro, a partire da una rivendicazione di base per tutti e tutte noi,
un reddito grarantito.
Perchè siamo tutto fuorchè inattivi e, proprio perchè siamo attivi, non abbiamo tempo di lavorare.
Cospirare vuole dire respirare insieme (Aprile 2014)
Un patto comune: riuniti nel collettivo Acrobax contro la precarietà
La sintesi di una lunga discussione è difficile da produrre in un singolo documento per questioni oggettive, ma anche
perchè si rischia di perdere la densità e la profondità di un processo continuo di elaboarzione ed attivazione.
Qui ci limitiamo dunque, a riportare alcuni punti nodali di un’esperienza collettiva, lunga alcuni anni, che qualcuno
vive dal primo giorno e qualcuno da pochi mesi ma che, sostanzialmente, ci riunisce tutti quanti in una volontà
comune di trasformazione dell’esistente.
Alcuni appunti di riflessioni con limiti e contraddizioni, prospettive ed elementi positivi da cui rilanciare; perchè
non partiamo da un grado 0 e abbiamo un bagaglio politico, sociale e culturale da poter investire per una nuova
accumulazione; consapevoli, grazie anche a quell’esperienza accumulata in un decennio, di doverla e volerla condividere per poter costruire un trampolino da cui spiccare il volo.
Insomma non proprio una ricetta dettagliata per cuinare la “rivoluzione”, quanto piuttosto la definizione di un cardo
e un decumano che delimitano uno spazio, all’interno del quale muoversi con una bussola.
In conclusione, questo documento rappresenta il nuovo patto comune dei precari/ attivisti del laboratorio Acrobax.
Un pò di storia, dopo dieci anni.
Era il 2001, tornavamo tutti/e dai giorni del G8 di Genova. Anche chi non ci era stato/a.
Perchè quella è una data spartiacque per molti/e della nostra generazione.
Quella è una data spartiacque per i movimenti in Italia: una grande ondata di partecipazione, conflitto ed idee si era sollevata in Italia. Come da molto non accadeva.
Lo ricordiamo il lungo sospiro di sollievo che l’attentato dell’11 settembre si alzò dagli scranni del potere; quello che seguì fu un lento torpore che riuscì a coprire tutto.
Iniziava la paura strisciante, il silenzio stretto intorno all’inevitabilità della guerra. Ma la guerra era anche sociale e si apriva in Italia, come nel resto del globo, e ci costringeva a vedere avverarsi tutto quello che avevamo detto; profeti di niente, ma osservatori pieni di buon senso e con qualche utopia di matrice marxista.
Semmai avevamo voglia di attualizzare, leggere il presente e la sua fase, riscoprire vecchi strumenti senza commettere l’errore di buttar via il bambino con l’acqua sporca.
E scoprimmo che il conflitto capitale lavoro non era scomparso ma si era trasformato, la precarietà aveva superato i confini delle fabbriche e degli uffici, e aveva assunto una nuova paradigma di produzione, scegliendo come combustibile la vita intera di tutti/e noi.
Erano anni in cui i precari e le precarie erano semplicemente atipici in un mercato del lavoro flessibile. Gli anni in cui le dottrine, che nel mondo anglosassone già avevano fatto scuola, da noi arrivavano come un vento freddo. Se possibile declinato sempre con la sciatta brutalità mediterranea.
Ed era lì, in quel contesto, che gridavamo con forza “reddito per tutti, guerra per nessuno”, invocando uno strumento di redistribuzione della ricchezza, cercando di aprire un fronte in cui attaccare un nemico che, coscientemente, si era disperso in mille rivoli e contratti e, con lui, un’intera società si era frammentata. Un ricatto formidabile veniva imposto a tutti/e ormai soli/e di fronte ai precarizzatori.
Noi cercavamo un terreno di ricomposizione.
Oggi quel terreno è ancora prioritario se agito come emancipazione da quel ricatto e, per noi, rimane valido. In alternativa, diviene solo uno strumento di disciplinamento dentro alla più complessiva precarietà.
E su questa facile discesa verso la precarietà, qualcuno si dovrebbe interrogare. Le strutture sindacali confederali in primis, costretti a comprendere, solo oggi, che la nuova forma del lavoro e della società poco si adatta a quella classica sindacale.
Ma ben più pesanti dovrebbero essere gli interrogativi di quelle forze politche che ci hanno propinato la retorica dell’inserimento nel mondo del lavoro, della flessibilità in entrata, del futuro roseo che ci aspettava.
E questo, oggi, pare preistoria con il corso degli eventi e con il dispiegarsi della crisi che, in quattro anni, ha disegnato il peggiore degli scenari. E quello che è evidente, in un fallimento dell’assetto attuale, sono le scelte del capitale neoliberista che si sono serrate nell’applicare, in modo ancora più determinato, le loro regole.
Uno scontro di classe in cui gli unici a giocare sono i “padroni” e dall’altra parte regna la confusione e la divisione con punte di “classica guerra tra poveri”.
Insomma una situazione eccellente per aumentare i propri profitti e farsi anche due risate.
E dall’altra parte non riusciamo neanche a definire qual’è l’altra parte, perchè un processo di disgregazione sociale lascia scariche innanzitutto le parole. Quelle che servono a costruire gli immaginari e i sogni, quelli di cambiamento innanzitutto.
Molti/e dei compagni che nel cambio di secolo erano attivi si sono fermati a guardare.
Se non c’è niente da dire meglio rimanere in silenzio.
Ma la condizione del presente è inaccettabile, oltre che faticosa e tendente ad un asfissiante autoritarismo.
Per questo abbiamo bisogno di scrivere e costruire la nuova narrazione, non di una generazione, ma della condizione di un’intera società; costruire legami e relazioni in grado di stabilire le basi per un nuovo patto sociale; riuscire a passare dal riconoscimento alla cooperazione, all’organizzazione e alla costruzione.
Non siamo più in una fase di buio totale, ma in quella di accettare o meno la luce fuori dalla grotta. Costruire una capacità di fantasia e rivoluzione.