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MUVER: Mu.Ve.R.: Muoversi Verso il Reddito.

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 [Un contributo verso il reddito]

All’interno del “laboratorio del precariato metropolitano”, un’esperienza che cresce nell’occupazione di quello che prima era il cinodromo della capitale, si sperimenta un percorso auto-organizzato di autodeterminazione della vita, che si scontra con la contraddizione del lavoro come meccanismo di controllo e istituzione totale.

Ogni giorno, tutti coloro che attraversano il laboratorio fanno uno, due o tre lavori sempre diversi, sempre pagati male, sempre senza prospettive. Viviamo in un contesto produttivo che ha generato frantumazione, dispersione e incomunicabilità, facendo leva sul ricatto della necessità di reddito e sulla precarietà generalizzata.Siamo tecnici informatici, fonici, facchini, camerieri, operatori del terzo settore, studenti/borsisti, disoccupati. Crediamo che un luogo come un laboratorio, che sperimenta nuove forme di autogestione e cooperazione, rappresenti un primo passo nella direzione di una riappropriazione diretta di bisogni quali la casa, la socialità, la comunicazione e l’informazione. La condizione di precarietà che ci accomuna, a prescindere dalla tipologia lavorativa e contrattuale di ciascuno, scaturisce dall’intermittenza di un reddito non continuato, non garantito, fonte di ricatto insopportabile.

Se una volta la produzione si basava fondamentalmente sull’industria, ora, nelle nostre metropoli, il baricentro della riproduzione di capitale si è spostato sul settore dei servizi, quello che comunemente chiamiamo terzo settore. Anche il processo di valorizzazione ha subito una trasformazione radicale. Il capitale non valorizza più solo la capacità manuale del lavoratore ma anche le sue attitudini conoscitive, relazionali e comunicative. Tutte capacità immateriali che vengono sussunte da un processo produttivo ristrutturato, che sfrutta, ricava profitti e si espande in ambiti come quelli della comunicazione, della net economy, della formazione e della stessa cooperazione sociale.

Attraverso queste modalità, che ci rendono permanentemente produttivi, riscontriamo forti difficoltà a distinguere i tempi di lavoro dai tempi di vita. Infatti la trasformazione del contenuto del lavoro post-fordista, e cioè il lavoro relazionale, comunicativo o di gruppo, comporta una definitiva compressione dei tempi di vita nei tempi di lavoro. Mentre il lavoro riduce lo spazio e il tempo per i nostri desideri, aumenta contemporaneamente la pervasività del suo controllo sulla vita. Il lavoro, trasformato nei suoi contenuti relazionali e nelle sue forme in produzione diffusa, è la sintesi tra una modalità classica che prevede un rapporto di subordinazione e mera operatività e una modalità di tipo “volontaristico”, che scaturisce da un’adesione personale, quasi etica, al contenuto stesso del lavoro.

Ad esempio, nei servizi alla persona, la posizione di chi compie la prestazione rimane indefinita e inclassificabile. Incapace di generare un’identità di lavoratore, è solo un riconoscimento di una prestazione socialmente utile.“Il senso di responsabilità dimostrato” nel salvaguardare un servizio si traduce in immobilismo e assenza di momenti di conflitto e di trasformazione dei rapporti di lavoro. Questo ricatto costante inchioda la precarietà di vita ad un continuo mutismo.

Questo silenzio è funzionale alla logica produttiva che mira all’ottimizzazione e alla massimizzazione dei profitti. Massimizzare i profitti significa appaltare al ribasso e pagare sempre meno chi lavora. Un lavoro che, laddove non è del tutto affettivo, si distingue comunque per una forte valenza del legame emotivo e del senso di responsabilità personale: un processo che nelle aziende i responsabili delle risorse umane chiamano fidelizzazione del lavoratore. Laddove non esiste il coinvolgimento emotivo e dove la competizione sovrasta la cooperazione, subentra il continuo ricatto della precarietà nelle esigenze materiali, nelle scelte, nei comportamenti, nelle relazioni, in poche parole nella vita.

Nelle metropoli, inoltre, l’esigenza di differenziare il servizio raggiungendo le diverse richieste del consumatore-utente, fa si che si sviluppi una produzione diffusa nei territori. Se si tiene presente che nella maggior parte dei casi le suddivisioni amministrative non corrispondono all’area di influenza economica reale di un comune, bisognerà cercare di integrare nei piani di azione locale quei territori che formano un’unica “area di mercato del lavoro”, intesa come lo spazio in cui vengono prodotte la maggior parte delle interazioni fra lavoratori, aziende e amministrazione locale. (da documento di sviluppo e monitoraggio dei Piani d’Azione Locale, Occupazione e politiche territoriali, Quaderni spinn Italialavoro, Ministero del lavoro e delle politiche sociali)

Il territorio è uno spazio metropolitano, un luogo dove consumiamo, produciamo, ci formiamo, ci informiamo e costruiamo relazioni sociali. Nell’arco di una giornata attraversiamo molti territori, diversi per conformazione geografica, urbanistica e per la molteplicità delle loro caratteristiche produttive. Lo sforzo che appartiene all’esperienza del Laboratorio Acrobax Project riguarda essenzialmente la comprensione di quegli elementi soggettivi e relazionali così come di quelli oggettivi ed istituzionali che animano e riempiono di senso il territorio in cui siamo inseriti e di cui ci sentiamo parte integrante. Grazie alla vitalità dei suoi elementi costitutivi, il territorio stesso è un entità mutevole, in continua trasformazione e ricerca di nuove connessioni. Questo meccanismo dal basso di connessioni reciproche, che producono scambio di informazioni, di sapere, di solidarietà e socialità, al di fuori della logica del profitto, contiene in potenza la cooperazione sociale. Nella realtà il territorio viene riscritto non dai bisogni sociali, ma coattivamente dalle esigenze di produttività del mercato.

Anche nel nostro territorio il passaggio dal fordismo al post-fordismo ha comportato la dismissione di alcune vecchie fabbriche (area del gazometro, area delle officine meccaniche di via della vasca navale, ex mercati generali). Quella che prima era periferia della città è diventata una zona centrale nella metropoli. Il processo di riqualificazione del territorio, sempre definito in base alle capacità di produzione di profitto, ha determinato l’espansione e la creazione ex novo di servizi.Il caso esemplare è rappresentato dallo sviluppo invasivo, rapidissimo e reticolare dell’università Roma Tre, che esattamente come un agente economico ha innescato un processo di colonizzazione e pianificazione territoriale (acquistando le aree dismesse e costruendo ovunque le sedi delle nuove facoltà), gestito in una dinamica che ha escluso totalmente la partecipazione della cittadinanza dai processi decisionali.

In termini di mero profitto, le conseguenze di questa colonizzazione sono sicuramente positive, come ci ricorda la politica pubblicitaria dell’Ateneo: i commercianti gioiscono dell’aumento della clientela, i proprietari di casa non si lamentano dell’aumento del valore degli immobili, si aprono nuove prospettive occupazionali. Oltre l’apparenza di questa visibile ricchezza, concentrata tra pochi soggetti, esiste una latente e progressiva precarizzazione della vita dei tanti che pagano un affitto sempre più alto, che trovano solo lavori intermittenti, che si spostano con difficoltà sempre maggiori nella metropoli congestionata, che subiscono l’aumento del costo della vita.

Tra i vari attori economici del territorio, Roma Tre ha sicuramente uno dei ruoli di protagonista per la capacità di intrecciare, supportare e coadiuvare la atre realtà che si muovono in questa porzione metropolitana: cooperative, agenzie interinali, associazioni, servizi del divertimento e amministrazione pubblica.

Questi attori attuano una vera e propria concertazione territoriale che esclude i soggetti reali e le reti sociali, quando non le piega alla propria progettualità economica.

Questa università nasce già riformata (vera e propria fabbrica del sapere) e si caratterizza per un legame visibile tra mercato della formazione e intermediazione privata del lavoro; tale sinergia è visibile fisicamente, quando vicino ad ogni facoltà nasce un’agenzia interinale, formalmente quando l’università organizza convegni sulle nuove prospettive occupazionali dei giovani laureati.

La ridefinizione del territorio oltre ad aver risignificato la fisionomia del lavoro e della comunità, ha portato nuovi attori ad attraversare quotidianamente (che sia per ore o anni) questo spazio metropolitano. Studenti (spesso fuori sede), tutti coloro che lavorano direttamente e indirettamente nell’indotto dell’università (dalle cooperative di manutenzione, pulizie, gestione ordinaria, amministrazione, biblioteche, mense, sicurezza fino ai ricercatori, dottorandi, docenti a contratto), commercianti e dipendenti precari di queste attività (vedi bar, pub, ristoranti, librerie e copisterie, cinema e teatri) e le già citate agenzie di lavoro interinale (Adecco, Manpower, Quanta, Brookstreet).

Inoltre non bisogna tralasciare la presenza consistente di migranti che sono parte del tessuto attivo del territorio “per i quali” sono stati creati nuovi servizi ad hoc: lavanderie, agenzie di rimesse (Western Union), phone center.

Questi nuovi servizi, che sembrano aver migliorato la realtà territoriale, sono un cane che si morde la coda nella misura in cui molto spesso gli utenti fanno parte dell’esercito di precari e precarie che subiscono la metropoli.

Questo universo molteplice di precari è invisibile perché la condizione stessa di precarietà viene vissuta in modo soggettivo e intimo tra la speranza di un riscatto, di una svolta individuale attraverso il lavoro, e la difficoltà di trovare momenti di confronto collettivi nella vita di tutti i giorni. La frammentazione del tessuto sociale non è casuale: risponde alla vecchia logica del divide et impera, introduce forti pressioni competitive tra i soggetti sociali, aggira i rapporti di forza a tutto vantaggio del profitto permettendo condizioni di sfruttamento inimmaginabili in un contesto sociale coeso. Siamo costretti a rincorrere una formazione permanente orientata esclusivamente al lavoro, a schizzare da una parte all’altra della metropoli per cercare mille lavori tra un centro per l’impiego e un’agenzia interinale, a rimanere in famiglia perché le case e gli affitti sono inarrivabili per i precari.

La scelta di occupare uno spazio (di proprietà del comune) nasce per dare un nuovo significato allo spazio pubblico di fronte alla privatizzazione e devastazione del sociale; lì dove i bisogni, le reti e la comunicazione che attraversano il tessuto sociale sono esclusi e privati di uno spazio di autonomia, nasce il progetto del laboratorio del precariato. Sullo spazio di cui ci siamo riappropriati aleggia lo spettro di un centro commerciale: un luogo sempre attraversabile dalla moltitudine precaria ma secondo logiche privatistiche e di mercato, una modalità di riqualificazione urbana che promuove di nuovo un centro di produzione, consumo e socialità al centro del territorio senza fermarsi (i tempi del sociale sono lenti) senza ascoltare la sua dinamicità mettendola esclusivamente in produzione.

 

Organizzando MuVeR.

[Sportelli metropolitani di informazione e di lotta]

Gli sportelli sono uno strumento di intervento e di interazione con il territorio metropolitano, un spazio pubblico per favorire la circolazione delle informazioni, per creare nella città momenti di confronto e riconoscimento tra precari e per immaginare comunemente possibili percorsi di lotta. Gli sportelli metropolitani sono per noi strumento di lotta, possibile spazio comune di soggettivazione, sono un luogo dove a partire dai bisogni e dai desideri comuni è possibile sperimentare una prima forma di ricomposizione sociale.

Il processo di soggettivazione che tentiamo di costruire collettivamente passa, prima di tutto, attraverso il riconoscimento reciproco, anche nelle differenze delle sue mille forme, di una condizione comune di sfruttamento e di precarietà.

Crediamo che la condivisione e la socializzazione orizzontale delle informazioni rompa quel meccanismo di frammentazione sociale che produce solitudini nella moltitudine precaria. Valorizzare questo passaggio significa per noi qualificare una delle prime funzioni fondamentali degli sportelli metropolitani: quella della comunicazione e socializzazione delle informazioni.

In un contesto dominato dai processi produttivi immateriali e dai velocissimi processi di intellettualizzazione del lavoro, gli sportelli di lotta agiscono sul piano dello scambio relazionale delle informazioni, producendo quelle forme di conflitto e di cooperazione autonoma che si vanno attestando adeguatamente sui livelli più avanzati della trasformazione e della ristrutturazione capitalistica.

Vale a dire che rimodulare attraverso lo spazio politico dell’autorganizzazione i contenuti immateriali delle informazioni, veicolandoli dentro circuiti aperti/open source, significa voler procedere sul piano delle forme antagonistiche ed emergenti del conflitto sociale contemporaneo.

Invertire il senso del flusso informativo ridefinisce quindi lo spazio nel quale i soggetti, come macchine linguistiche, mettono a valore tutte le loro capacità emotive relazionali e comunicative sottraendole alla sussunzione del mercato, verso una dinamica di cooperazione diffusa, tesa al rovesciamento del comando capitalistico.

Vi è dietro gli sportelli un fare comune contemporaneamente strumentale e progettuale.

Strumentale nel momento in cui corrisponde ai bisogni immediati che i soggetti metropolitani esprimono. Progettuale nella misura in cui costruisce quelle reti sociali che sul terreno della cooperazione autonoma puntano al cambiamento radicale dei rapporti di forza attuali, costituendosi come soggetti protagonisti dei processi di autovalorizzazione. L’esperienza degli sportelli informativi e di lotta ribalta immediatamente il modello di servizio informativo tradizionale, poiché se vissuta nei centri sociali, nelle case occupate, nei laboratori sociali costituisce di per sé lo spazio politico di agibilità per quei momenti di lotta, riappropriazione e risignificazione di spazio pubblico, totalmente estranei alle agenzie di lavoro interinale, ai C.O.L. o ai collocamenti pubblici e privati.

La socializzazione delle informazioni diviene quindi la prima ed immediata funzione di Muver, lo strumento con il quale intercettare non solo le emergenze più drammatiche, come spesso capita con le ultime occupazioni di casa, ma anche le diverse forme della precarietà, apparentemente meno estreme ma non per questo diversamente insostenibili. La precarietà abitativa per esempio comprende condizioni fortemente diversificate: dai senza tetto (prevalentemente migranti), agli studenti fuori sede, alle famiglie le cui case vanno nelle mani delle banche attraverso le cartolarizzazioni, fino a tutto quel precariato diffuso che va dai venti anni in su.

Gli sportelli metropolitani sono per noi uno strumento agile e flessibile, modulato sugli interstizi della frammentazione metropolitana. Sono la risposta minimamente adeguata alle stratificazioni prodotte dalle privatizzazioni e dalle speculazioni che hanno irreggimentato e ridisegnato il territorio metropolitano attraverso l’ideologia del profitto.

Ma c’è un secondo passaggio che gli sportelli di lotta possono contribuire a determinare nella costruzione di un processo comune di autorganizzazione. E’ ovviamente il passaggio di rivendicazione verso un reddito garantito ed universale. E’ la rivendicazione intorno alla quale noi acrobati abbiamo pensato, immaginato ed occupato il nostro Laboratorio. La rivendicazione di reddito è secondo noi il primo piano di scontro possibile contro il ricatto della precarietà. E’ il minimo che ci devono a fronte della produttività permanente di cui siamo portatori. E’ quel luogo di possibile ricomposizione che oltrepassa la dimensione frammentaria della precarietà contemporanea e la costante parzialità delle rivendicazioni che le soggettività precarie attualmente esprimono. E’ per noi la rivendicazione intorno alla quale diviene fondamentale fare massa critica per alimentare e connettere quelle forme isolate di conflitto, rabbia e rifiuto del lavoro.

Tutto questo non avviene semplicemente attraverso gli sportelli informativi e di lotta. Tutto ciò fa parte di un processo lungo e complesso per il quale nessuno può credere all’oggi di avere la formula magica o la soluzione a portata di mano. Ma di una cosa siamo sicuri, un processo va alimentato e stimolato e gli sportelli servono sostanzialmente a questo.

Se gli sportelli devono funzionare come uno dei carburanti possibili di questo processo, si devono proporre sia come luogo materiale di ricomposizione, sia come elemento di precipitazione: le due cose formano una miscela inscindibile.

Ma nella costruzione reale dei rapporti di forza in questa società è necessario concepire delle formule e delle modalità organizzative che abbiano come obiettivo la valorizzazione della dinamica di rete e la dislocazione di articolazioni autonome sui territori.

Per questo siamo pienamente consapevoli che se gli sportelli metropolitani riusciranno ad aggregare e ad essere vero elemento di ricomposizione vi riusciranno solo in una modalità organizzativa orizzontale e reticolare nella valorizzazione delle differenze verso una costruzione tendenzialmente anticomunitaria del fare società.

 

Muver costruisce. Costruisce fratture attive e critiche nel territorio. Dalla metropolitana al mercato di quartiere, a quella fabbrica diffusa che è l’Università di Roma Tre. Passando per le case occupate o quelle in via cartolarizzazione, fino alle conflittualità nei luoghi di lavoro che siano i depositi degli autoferrotranvieri o i canili comunali in agitazione per il contratto. Muver ha la presunzione di credere che solo mediante le lotte costruite attraverso l’integrazione di percorsi reali si possa superare insieme la frammentazione vissuta nella metropoli.

Muver vuole essere un dispositivo riproducibile, aperto e moltiplicabile il cui intervento diviene intercettare chi abbia voglia e bisogno di confrontarsi, per uscire dall’invisibillità sociale e attivare percorsi comuni e concreti di riappropriazione e di lotta.

L’organizzazione degli sportelli rappresenta una rottura rispetto a quel rapporto tra esperto e utente che si crea nell’ordinarietà del servizio al pubblico e che mantiene di fatto i soggetti in una costante condizione di passività.

Nello sportello di MuVer non ci sono vetri, non ci sono sportellisti e non ci sono utenti: c’è invece un meccanismo fluido che anima il rapporto tra i/le precari/e tra loro e con il territorio nel quale si articolano le loro esperienze di precarietà e di lotta. Nulla di insuperabile separa chi chiede da chi dà informazioni, chi vuole fare una vertenza da chi vuole leggere un contratto di lavoro, chi occupa casa da chi ha problemi con lo sfratto…

La comune condizione di precarietà tra coloro che attraversano settimanalmente lo sportello mette in moto un circolo virtuoso di scambio di informazioni e di inchiesta viva su quelle che sono le problematiche e i bisogni comuni. Agli sportelli non ci sono file perché tutti sappiamo che non è il momento di risolvere i conflitti ognuno per se stesso e che vogliamo sedere in cerchio perché nessuno può dire da solo quale sia la soluzione giusta ad un problema.

La pratica dell’occupazione e dell’autogestione, i percorsi sociali e le dinamiche di lotta che ogni giorno attivamente attraversiamo e costruiamo ci mostrano che l’unica possibilità di superare l’alienazione, la frammentazione e la disgregazione che ci impone il mercato è quella di aprire spazi di confronto pubblico e orizzontale che rimettano al centro i nostri bisogni e i nostri desideri.

L’intervento degli sportelli nella lotta contro la precarietà di vita si articola su diversi piani a partire dai bisogni diffusi: in particolare l’emergenza della precarietà abitativa, la repentina e radicale precarizzazione del mercato del lavoro e l’incertezza della condizione dei migranti aggravata dall’infame legge Bossi-Fini

L’esperienza degli sportelli indica che i piani della precarietà sul lavoro, sulla casa, della cittadinanza sono tutt’altro che ambiti ben distinti tra loro: uno straniero in Italia in attesa di permesso di soggiorno deve fornire garanzia di “stabilità” lavorativa nonché abitativa, e se manca un anello il cerchio non si chiude. Senza residenza e cessione di fabbricato la questura non concede il permesso di soggiorno, senza permesso non si trova lavoro e se anche il lavoro si trova è precario, a tempo determinato e il rinnovo del permesso dura poco e la storia ricomincia. Anche per chi non ha il problema della cittadinanza, la precarietà lavorativa ma soprattutto la non continuità del reddito creano non poche difficoltà se si deve pagare tutto: la casa, i trasporti “pubblici”, la formazione, la sanità.

Al ricatto del reddito si aggiunge quello della solitudine di fronte ad un mercato del lavoro che impone contratti individuali, che ci mette in un rapporto di forza sempre svantaggiato di fronte ai padroni e al loro desiderio di abbassare incessantemente il “costo” (mai risorsa) del nostro lavoro. La normale dinamica sindacale spesso non funziona perché non solo i contratti ma anche i rapporti di lavoro o di “collaborazione” sono individualizzati.

Lo strumento vertenziale classico rappresenta un modo di rispondere ad un’esigenza di giustizia sociale, ma difficilmente si traduce in una reale trasformazione dei rapporti di forza: le leggi che regolano il mercato del lavoro si sono adeguate alle esigenze della flessibilità e progressivamente erodono l’ambito delle tutele collettive.

La proposta implicita nella pratica dello sportello è quella di estendere al territorio circostante quell’universo di lotte che in passato ancora rimaneva nell’ambito della fabbrica o nel luogo di lavoro in genere. I bisogni che come soggettività precarie esprimiamo trovano infatti risposte nei territori ed è lì che si deve auto-organizzare il conflitto.

 

www.acrobax.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervento metropolitano 2.0

(versione 2005-2006)

 

 

Access Groups

 

In questi anni il nostro collettivo e le nostre vite precarie si sono trasformati, modificati, stratificati, mentre contemporaneamente la società, l’economia, le metropoli, il capitale continuavano il loro processo di ristrutturazione locale e globale. Il paradigma della crisi sembra avvolgere ormai tutti gli ambiti del sistema: quella del capitale che ormai ha eletto la guerra a parametro di gestione dei conflitti sociali, quella del mercato del lavoro, che giustifica così la disoccupazione endemica e la precarietà estrema dei posti di lavoro in tutti i settori produttivi, quella economica che obbliga le nostre vite a un’incessante lotta alla sopravvivenza e che frantuma quello che la cultura di massa ha già destrutturato… Una crisi che investe direttamente le nostre vite e quindi le nostre soggettività politiche e che da Genova in poi non ha mai smesso di attanagliare anche i movimenti sociali di questo paese. Una crisi politica che parte dall’estrema difficoltà per i soggetti sociali di riconoscersi in pratiche e linguaggi comuni, di uscire dal silenzio e dalla criminalizzazione mediatica, dalla complessità di comprendere i meccanismi della produzione e i luoghi in cui questi si dispiegano e di maturare una prospettiva di trasformazione/rivoluzione possibile e praticabile. Questa crisi innerva anche il nostro percorso politico, ed è insieme mortifero e concreto gap oltre che linfa creativa e stimolo politico incessante, nella continua ricerca del Laboratorio Acrobax Project di costruire alleanze sociali e non inutili e asfissianti sommatorie politiche.

 

Il continuo lavoro di scambio, auto-inchiesta, analisi del presente che ha accompagnato da sempre il nostro percorso, ci spinse qualche hanno fa a intuire l’importanza crescente, in questo contesto politico e economico mutato, dell’accesso alle informazioni e dello scambio di saperi come motore di agitazione e presa di coscienza dello sfruttamento cui quotidianamente sono sottoposte le nostre vite, anche oltre il lavoro. Così nacquero gli sportelli Mu.Ve.R. casa/lavoro/diritti dei migranti, sportelli di informazione e di lotta come strumento per intercettare i precari di questa città, per discutere insieme, per organizzare vertenze sociali e costruire percorsi allargati e moltiplicabili contro la precarietà della vita. E infatti nel fare quotidiano gli sportelli si sono dimostrati un valido supporto per diversi soggetti, individuali e collettivi, dai call center ai canili agli operatori sociali ai lavoratori in nero, dai migranti agli occupanti di casa agli sfrattati… confermando quindi il valore e l’importanza della conoscenza e dell’informazione nella costruzione di momenti di rottura del ricatto quotidiano del lavoro, dell’affitto, del permesso di soggiorno… Eppure investire su questa attività politica ha mostrato anche i limiti di una pratica che è essenzialmente di servizio, (e come tale diffusissima in questa città e non solo: sportelli, sportelli unici, camere del lavoro…) e che non è automaticamente sintomo e stimolo di e per l’autorganizzazione sociale. Il lato progettuale ha dunque connesso solo di rado i soggetti senza dare continuità alle vertenze e soprattutto senza coinvolgere la maggior parte dei precari che hanno attraversato gli sportelli in reti di più ampia rivendicazione.

 

Questi limiti concreti all’intervento ci hanno dunque spinto in questo ultimo anno a ricalibrare i nostri progetti politici, ripartendo come è ovvio dalla valorizzazione di ciò che già c’è all’interno del nostro laboratorio e nell’ottica di delineare una struttura progettuale che connetta tutta la ricchezza che i diversi progetti che ci attraversano esprimono in modo coordinato, organizzato e continuativo. Così accanto al nodo dell’informazione/comunicazione attivato dal Lab e dal progetto degli sportelli metropolitani, che resta il centro propulsore di una presa di coscienza individuale e collettiva in quanto inverte la matrice linguistica del potere verso la presa di parola del soggetto, si è delineato sempre di più nei nostri dibattiti il concetto di accesso, inteso soprattutto come momento di riappropriazzione diretta di un bi_sogno altrimenti negato o ostacolato dai flussi rigidi e strettamente sorvegliati della produzione. L’Accesso come sottrazione di corpi e menti al mercato del consumo, l’accesso come possibilità di fare che è riprendersi tempo e reddito indiretto in quanto riguarda la creazione quotidiana di alternative in uno spazio occupato e liberato; Accesso perché questa parola contrappone il diritto negato alla merce/servizio a pagamento, perchè parla il linguaggio della cooperazione sociale diffusa opposta a quello del mercato. Accesso a un mondo diverso che stiamo già costruendo, senza aspettare.

 

Così quelli che abbiamo cominciato a chiamare Axs Group, che non sono altro che le attività avviate e in costruzione (corsi di Linux, sala prove, Lab audiovideo, infoshop, mediateca, polisportiva sociale, il circo “Officina espressioni libere”…) che il Laboratorio Acrobax e tutte le realtà che quotidianamente lo costruiscono hanno messo in piedi negli anni, sono più che altro un metodo di organizzazione e di dibattito basato sulla consapevolezza/rivendicazione che in modi diversi e molteplici ci si sta già riappropriando della parola, del tempo, della nostra creatività, dei nostri desideri, dei nostri sogni.

 

Un metodo che da un lato permette di valorizzare ogni approccio/sfera di intervento nella società, dal diritto all’abitare all’accesso ai saperi, dagli interventi nel mondo del lavoro e di biosindacalismo al proporre una forma diversa di sport e socialità, mentre dall’altro evidenzia nella concretezza del fare i limiti che tutte queste creatività incontrano davanti al ricatto del lavoro, del tempo che manca, della precarietà che siamo costretti a subire.

 

La novità dunque non sta tanto nel contenuto ma nella forma dello “sportello”, una forma più rizomatica e fluida in grado di lasciare autonomia ai diversi percorsi, cercando nello stesso tempo tra queste diversità di approccio un respiro comune; un”luogo di possibilità” in cui i desideri si confrontano e trovano metodi inclusivi di costruzione di percorsi. La sfida sta infatti nel fornire un contesto complessivo a tutti questi momenti tuttora isolati: nel concetto di group sta infatti la modalità di connessione di questi momenti, nel configurare un hub che raggruppi tutti gli accessi e liberi energie e prospettive nell’ottica di spiegare, raccontare e annullare la frammentazione sociale che come precari viviamo in questa metropoli, tendere alla ricomposizione di un soggetto sociale per sua natura eterogeneo e probabilmente difficilmente riducibile a un’unica classe sociale di appartenenza, di dare a questo soggetto la possibilità di trasformare lo stato di cose presenti a partire dal proprio quotidiano.

 

Un hub che parta dal cinodromo e dai lab che in questo spazio pubblico costruiscono alternative al modello unico del capitale, ma che sappia allargarsi e intercettare altri soggetti metropolitani, che possa essere un nucleo in espansione di una rete cittadina contro la precarietà che non sia solo una sommatoria ma che sappia essere attraente, positiva e costruttiva. Un hub che parli le diverse lingue dei soggetti metropolitani, che sia in grado di aggregare e ricomporre attorno a sé sempre nuovi bisogni/desideri e nuove soggettività allo scopo di condividere e digerire, partendo dalle nostre condizioni e dalle nostre storie, alcuni concetti come precarietà, frammentazione, produttività, valore, profitto ecc… Una rete che, attraverso l’autovalorizzazione delle proprie esperienze di creazione, lotta e sabotaggio, sappia dare finalmente un nome alle cose e abbia la voglia di produrre iniziativa e conflitto in questa metropoli dai confini labili e strettamente sorvegliati.

 

Un movimento è possibile se ripensiamo collettivamente forme organizzative e sociali alternative a quelle presenti che abbiano come metodo l’orizzontalità e l’autorganizzazione dei soggetti garantendo la trasparenza delle scelte, delle analisi e dei percorsi, e se siamo in grado di produrre una piattaforma rivendicativa tarata sulla contemporaneità e sulla trasformazione, in grado di valorizzare da un lato la cooperazione sociale diffusa e dall’altro di creare immaginario, di incidere a livello culturale nella società.