La governance capitalista è allo sbando, non ha un piano strategico, si muove sulla tattica e sulla rapina sistematica, usa strumentalmente la crisi, la costituisce come fondamento e la risignifica come dottrina.
Il gioco di specchi è tra l’uso politico della crisi attraverso il ruolo vincolante della troika e il comando politico e militare sull’austerity, con le polizie usate sovente come truppe di occupazione dei territori.
Dentro lo sviluppo e la trasformazione radicale della realtà sociale e produttiva, lo stato contemporaneo, snello o postmoderno o come lo si voglia definire, è ancora lì esistente, con la sua scienza della polizia a difesa dell’autoregolazione del mercato, sovrano unico e incontrastato. La macchina dello stato è ancora il potere politico a guardia dell’esercizio sistematico del profitto per mezzo dello sfruttamento capitalistico, nella sua permanente dinamica di espropriazione e cattura.
La moneta in crisi, ovvero l’Euro – questo enorme campo di forze a regime intensivo di sfruttamento del lavoro vivo sotto l’egemonia del capitale renano – diviene un nuovo stato, oltre lo stato. Potremmo dire che la moneta – ma anche la finanza globalmente intesa – diviene sovra stato produce legge senza bisogno della legge, decide permanentemente sull’eccezione e sulle nostre teste, disponendo sistematicamente del futuro delle nostre vite.
Il volto politico della governance attraverso gli esecutivi tecnici e autoritari che si alternano alla guida di molti paesi della comunità europea – tecnicizzazione, vecchia passione dell’autorità – assume sembianze sempre cangianti, diversificate e articolate che sintetizzano sul territorio la rappresentanza del complesso snodo di lobbies e agenzie, apparati e gruppi di expertise. Snodi di potere che sul territorio si diffondono e si moltiplicano progressivamente proprio per il loro ruolo strategico all’interno della stessa catena di comando.
Sostenuti ed eterodiretti dai gruppi di interesse del capitalismo contemporaneo, ormai attraversato e verticalmente costituito dal processo di finanziarizzazione dell’economia, basato sulla stessa produzione biopolitica del comune.
E’ in corso, nella grande transizione e diaspora del moderno, una nuova accumulazione originaria del capitale attraverso la gestione e il controllo proprietario della banca dei dati sociali, il nuovo grezzo immateriale, la nuova energia come lavoro vivo, sottomessa e risucchiata dal regime capitalistico contemporaneo.
La produzione del capitale sociale e i nessi tra le forme della nuova valorizzazione cognitiva, digitale, affettiva, l’evoluzione delle tecnologie della comunicazione e del linguaggio che nella rete si dispiegano sono lo spazio per la nuova accumulazione capitalistica. Le reti sociali virtuali ad esempio rappresentano lo spazio della cooperazione sociale diffusa e nel contempo della nuova cattura: siamo di fronte alla sussunzione reale non solo del processo lavorativo formalmente costituito ma dell’intera vita nella sua produzione e riproduzione reale. Le multinazionali oligopolistiche che gestiscono i big data e le infrastrutture informatiche sono evidentemente i nuovi padroni.
Ciò non significa aver individuato l’unica contraddizione nello sviluppo del capitale, quanto invece aver segnalato una delle tendenze più avanzate sotto il profilo delle nuove forme dello sfruttamento della vita e della sua riproduzione.
E però queste forme di accumulazione e sfruttamento intensivo non sono le uniche del comando capitalista. La speculazione immobiliare, la cementificazione del suolo, la rendita immobiliare rappresentano, nelle continue interconnessioni con il processo di finanziarizzazione, altre e altrettanto decisive forme dello sfruttamento e estrazione di valore.
Così come anche dentro le stesse politiche neoliberiste del pareggio in bilancio e della privatizzazione dei servizi del welfare, dello sfruttamento dei cosiddetti beni comuni, come appunto il suolo e l’acqua, si determina un processo intensivo di sviluppo e accumulazione di profitto ed estrazione di plusvalore.
Da qualche parte abbiamo letto che il ceto capitalista è in un certo qual modo foucaultiano, ogni sua categoria definitoria è categoria pratica, ipotesi di trasformabilità rapporto tattico e strategico e con questo siamo profondamente d’accordo.
Le politiche dell’austerity e la misura del debito devono però come sempre essere imposte e governate con la forza, con quella coercizione propria della “spada che sostiene la legge”. Le decisioni dei governi che hanno adottato le indicazioni della commissione UE sono di profonda e drammatica portata nei termini di costi sociali e questo in nome della dittatura dei mercati e del neoliberismo.
Il governo autoritario della crisi prova a gestire la grande transizione con un’asimmetrica guerra civile non dichiarata. Gli eserciti del neoliberismo contro i nuovi poveri del neoliberismo. Nella crisi della misura del valore, si rompe anche il piano-sequenza della politica come mediazione e governo dei conflitti. La crisi della rappresentanza politica relega la governance al ruolo di una nuova scienza della polizia in un progressivo, voluto e disinteressato distacco dalla realtà, dalla sua costituzione materiale, dalle leve concrete della precarizzazione. L’unico welfare realmente visibile nella vita delle persone è la polizia.
La particolarità del momento preelettorale che sta attraversando il nostro bel paese, vive un passaggio complesso che si dispiega su un vero campo di forze, su una tensione polarizzata che terminerà evidentemente in uno scontro e ulteriore conflittualità sociale, starà a noi capire però in quale direzione politica.
I rigurgiti della teppa neofascista, con il populismo del ritorno sovranista alla casa dello stato regolatore o, peggio, alla più retrogada cultura nazional popolare sono dietro l’angolo di ogni dibattito sulla crisi. Non ci sorprenderebbe affatto un risultato discretamente pericoloso per le organizzazioni neofasciste e neonaziste candidate ovunque tra elezioni politiche e amministrative.
Per non parlare della scelta del movimento cinque stelle di farsi i salutini con i fascisti del terzo millennio ammiccando qua e là, ovviamente, anche nel mondo dei centri sociali, vantando l’internità, magari anche specificatamente genuina, in alcuni movimenti popolari noti come il No Tav, i movimenti per l’acqua pubblica o quelli sui rifiuti.
Magari scopriremo che la burla del comico torna comoda come ultimo estremo tentativo di una parte della governance e dei suoi apparati per il recupero, la cattura della rabbia, nell’ultimo disperato tentativo di neutralizzare e normalizzare il malcontento ormai diffuso che, nel biennio 2010/11, qualche fiammata di indignazione l’aveva manifestata nelle strade di questo paese.
Meglio dare il sussulto alla legalità e al richiamo confessionale alla costituzione e rimandare i giovani rivoltosi a casa o, ai più cattivelli, e sprovveduti un po’ di galera.
E speriamo non sia solo un addomesticamento quello delle istanze anche più avanzate, come quella sul reddito di cittadinanza – che poi figurarsi scavalcano le pozioni micragnose della sinistra con l’orecchino sotto l’ala del PD.
Proprio su questo tema si dovrebbe aprire una profonda riflessione su quello che i movimenti sono stati in grado di produrre in questi anni e della capacità che hanno avuto di imporre una questione nell’agenda politica di questo paese. Eppure, da sempre convinti che il reddito sia uno strumento, sappiamo anche che, come tale, può essere utilizzato per approfondire quella condizionatezza e controllo sei sistemi di workfare che, negli ultimi anni, abbiamo visto nel resto di Europa.
C’è da compiere una scelta: rivendicare un reddito incondizionato perchè in aperta rottura con le dinamiche di precarizzazione, o scegliere di rimanere imprigonati nelle maglie del contenimento sociale.
Un sistema bloccato, circolo vizioso, nella coazione a ripetere.
La nostra generazione per vivere e non sopravvivere può fare solo la rivoluzione, non c’è altra strada.
C’è bisogno della rottura politica col quadro della compatibilità voluto anche dalle sinistre parlamentari o aspiranti tali, chi col PD, chi con quella magistratura che sostituendosi alle opposizioni sta aprendo un varco pericolosissimo dentro lo stesso esercizio del potere.
Per tre volte la Repubblica Italiana ha fatto ricorso, per supplire alla mediocrità della politica, alla via giudiziaria. Prima, con lo stato di emergenza e le leggi speciali evocate ed applicate per annichilire la spinta rivoluzionaria nel decennio caldo che è seguito in Italia al maggio francese, poi per disarcionare una classe politica corrotta nello scandalo tangentopoli, poi per reprimere l’asse di potere del Cavaliere congiuntamente alle pressioni e successivi ultimatum dei vertici della Trojka che a loro volta hanno imposto d’autorità e nello stato di emergenza il governo dei tecnici.
La rottura non può che essere generalizzata, aperta e di massa critica. Quella trasformazione può essere compiuta solo se i soggetti precarizzati e impoveriti riusciranno a connettere le loro singole attivazioni in un processo più ampio e liberare il campo dagli orticelli delle organizzazioni precostituite anche di movimento.
Evidentemente negli ultimi anni si è costruito, con lo sviluppo e l’acuirsi di vertenze più o meno grandi, un segno di insubordinazione, un arcipelago, un’idra dalle molte teste; il punto sostanziale oggi però è generalizzare, comprendere un quadro differente, in cui dovremo essere in grado di mettere in campo non più rappresentazioni del conflitto quanto invece la giusta forma della rottura con un’organizzazione sociale fluida e sufficientemente attestata sulla trasformazione, all’altezza della fase.
Questo molto più che le elezioni, sono il centro delle nostre prospettive e relazioni.
Le condizioni, attualmente, non possono essere univoche, perchè la crisi ha prodotto un’enorme frammentazione ed è difficile ritrovarsi nello stesso luogo e nello stesso tempo, la ricomposizione nella lotta.
Riuscire ad immaginare una trasformazione radicale dell’esistente è l’unica via di fuga dalla retorica e dal senso di responsabilità e sacrificio mortifero del capitalismo. Nell’insopportabile violenza prodotta sulle nostre vite sta la prima leva in cui rivoltare il macigno, la seconda è l’organizzazione della rottura oltre i partiti, le sigle sindacali o le reti di scopo, ma nella condivisione reale di un processo, in cui sia chiara e trasparente la relazione tra i singoli territori, che siano essi fisici o mentali, ma in cui si produce lo sfruttamento delle nostre vite e dove è necessario concentrare energie e conflitto.
La terza è l’individuazione delle strategie della soggettività di movimento adeguate al conflitto nel cosi detto mercato del lavoro, nello sfruttamento dei beni comuni contro le dinamiche della precarizzazione, normalizzazione e cooptazione che spesso compongono quell’ingranaggio di potere, prerequisito e dispositivo nelle strategie della governance neoliberista.
Le nostre catene continuano ad essere sempre più salde e noi non abbiamo che perdere solo quelle.
Conoscete il detto “capire di che morte morire”? Si usa in condizione di frustrazione e rassegnazione, aspettando che qualcuno palesi le proprie volontà perché determini anche il nostro di futuro.
Esattamente il punto di vista opposto. E’ questo quello che abbiamo provato a costruire e continueremo a fare cercando altri con cui respirare e cospirare assieme.
Determinare le nostre vite, creare legami per riprendere il presente e poter decidere un futuro, diverso:
scegliere di che vita vivere.
Que se vayan todos, no algunos
Laboratorio Acrobax