Riteniamo utile fare alcune riflessioni dopo le giornate di assemblee nazionali svoltesi il 9 e 10 novembre:
Partiamo dall’importanza che ha avuto il percorso di costruzione e la realizzazione della settimana di mobilitazione contro le politiche di austerità dal 12 al 19 Ottobre. Giornate che hanno segnato la connessione tra diverse reti e soggetti antagonisti: dai movimenti per il diritto all’abitare, ai movimenti contro la devastazione territoriale e la difesa dei beni comuni, dal sindacalismo di base alle reti dei migranti.
Una composizione meticcia che ha espresso una volontà determinata di protagonismo sociale indipendente da qualsiasi forma di rappresentanza partitica e sindacale. Sicuramente questo è un dato fondamentale di quella settimana che ha visto nella giornata del 19O la sua caratteristica più evidente, con una partecipazione sopra le aspettative alla manifestazione nazionale che ha messo in evidenza le potenzialità delle lotte reali e della capacità di aggregazione della rotta indipendente rispetto alla manifestazione costituzionale del 12 Ottobre. Il segno tangibile del #19o è stato certamente il protagonismo dei movimenti indipendenti, la loro capacità dal basso di costruire una mobilitazione sociale del precariato metropolitano ampia e moltitudinaria. Diritto alla casa e al reddito, sospinto innanzitutto dai movimenti per il diritto all’abitare cresciuti non solo a Roma ma sedimentati ed espansi nelle altre città e territori della penisola, dentro quell’abitare nella crisi che parla direttamente alla costituzione biopolitica delle lotte, alle pratiche della riappropriazione, nel diritto alla casa e alla città come spazio comune. Una giornata che poi è divenuta un lungo assedio ripreso anche il #31O, nata dentro il quadro globale di mobilitazione ed espansione dei movimenti non solo europei, ma più precisamente dentro il rinascimento delle lotte globali dal Brasile alla Turchia. In primo luogo nel loro divenire irriducibili a schemi prestabiliti di organizzazioni sindacali o partitiche delle sinistre del governo della crisi. In Italia dopo il 15 Ottobre del 2011, che segna uno spartiacque destituente nei movimenti e nella forma fin’ora praticata della loro rappresentabilità politica, si è affermata una nuova non sottomettibile soggettività che ha avuto non solo la capacità di afferrare l’evento nel suo divenire rottura e immaginario di rivolta, ma che nel corso di questi due anni ha maturato una nuova linfa costituente, che proprio sul dettame delle sinistre mobilitate una settimana prima del #19o a difesa della Costituzione del 1948, ha tracciato una rottura nella lotta, una demarcazione programmatica nello scontro politico e non meramente giuridico, nella traiettoria che ha legato la critica al diritto formale, alla critica al linguaggio del potere, potenziando la base per una riscrittura complessiva e dal basso della carta costituzionale e dell’intelaiatura dei nuovi diritti. Con la stessa determinazione abbiamo partecipato alla manifestazione del 31 ottobre in occasione della Conferenza Unificata sulla casa cercando di portare l’assedio come processo di conflitto reale davanti ai Palazzi in cui si decidono le politiche abitative e di welfare nel nostro Paese. Abbiamo fatto parte di questo processo scommettendo sull’apertura di uno spazio pubblico di movimento nel nostro paese. Lo abbiamo fatto partendo dalla condizione che viviamo nella metropoli, una condizione precaria generalizzata che invade ogni aspetto della nostra esistenza distruggendo tempo di vita, sogni, desideri, relazioni, bisogni e diritti. Siamo dentro una nuova fase per i movimenti e per il loro avvenire e il #19O contribuisce a questo piano immanente della nuova conflittualità sociale contro l’austerity e contro il suo governo della paura, nella crisi di sistema del capitalismo. Certo la sfida è ardua poiché complessiva, non facilmente focalizzabile nella formazione generale dell’asservimento che l’umanità sta subendo nello scontro asimmetrico con il potere della finanza e della rendita. I movimenti per il diritto all’abitare, ad esempio, sono fondamentalmente uno spazio di costituzione della lotta contro la rendita e la finanziarizzazione del suolo, dello spazio metropolitano, del welfare e della stessa soggettività. In questo senso sono quasi un’eroica resistenza sociale al capitale finanziario poiché lo affronta direttamente sul terreno dello scontro biopolitico tra la vita e il capitale. Sono movimenti proletari anticapitalisti, che danno corpo e sostanza, insieme al precariato sociale, alla nuova composizione metropolitana meticcia e riappropriativa. Ad un comune della soggettività che parte da un solido nesso istituente del diritto alla casa, al reddito garantito e alla città. Un precariato metropolitano intellettualizzato, costantemente indebitato, soggettività centrale della nuova composizione di classe, soggettività sociale trasversale tanto quanto è trasversale il processo di produzione di valore e finanziarizzazione del capitale. Centrale per comprendere la definizione del divenire nuova composizione sociale, nelle trasformazione produttive e del lavoro come generale intelligenza cooperativa, relazionale, cognitiva, immateriale, permanentemente connessa con le macchine, con la rete, nei contenuti della nuova irrigimentazione e sottomissione del lavoro vivo. Un precariato che abita la crisi nella giungla metropolitana tra formazione permanente e lavori intermittenti, lavoro nero e disoccupazione di massa, frantumazione giuridica delle tipologie contrattuali, distruzione totale dei legami sociali, assenza di qualsiasi ammortizzatore sociale nell’epoca in cui il welfare familiare rappresenta per molti milioni di precari la cassintegrazione di ultima istanza. Ma nell’impoverimento generale di larghi strati della popolazione anche questo ammortizzatore sembra ormai esaurito. Soggettività precarie che fanno i conti quotidianamente con l’assenza totale dei diritti dentro ed oltre il lavoro, incapacità di organizzarsi, carenza strutturale di alternative all’altezza della sfida. Ma poi quale lavoro? Chi “rincorre il capitale” rivendicando nell’attuale fase economica un lavoro “utile e dignitoso” o non ha mai lavorato in vita sua oppure non vuole fare i conti con la realtà contemporanea. Importanti lotte sui posti di lavoro che hanno coinvolto centinaia di soggetti nell’ultimo decennio, senza costruire momenti di generalizzazione collettiva si sono frantumate contro esternalizzazioni, minacce di delocalizzazione, sedicenti “crisi industriali”. Il risultato è stato l’attivazione dell’anestetico degli ammortizzatori sociali: antichi, iniqui ed arretrati che tutelano una parte minima del lavoro nel nostro paese. Sempre più spesso lotte sui posti di lavoro si trasformano in vertenza per il prolungamento degli strumenti di protezione sociale, sostegni al reddito concessi con i fondi comunitari dietro la retorica delle inesistenti politiche attive. Questo welfare condizionale e clientelare non produce nessuna prospettiva ma serve esclusivamente a mantenere la formalizzazione dei posti di lavoro senza intaccare i dati della disoccupazione reale. Con buona pace dei sindacati confederali trasformati in “burocrazie di servizio” che si caratterizzano esclusivamente nella concertazione e la co-gestione degli ammortizzatori sociali ordinari e in deroga avendo esaurito da decenni consapevolmente qualsiasi istanza di conflitto e difesa dei diritti all’interno dei posti di lavoro. Il lavoro contemporaneo: umiliato, declassato, impoverito, dequalificato, frantumato, nocivo e devastante per l’ambiente non sarà mai un bene comune. Questo non significa non attivare e sostenere le lotte e le vertenze sui posti di lavoro: nell’ottica di fottere le aziende attraverso il cash and crash, praticare la vendetta precaria quando qualsiasi terreno di vertenzialismo sembra inutile oppure riappropriarsi di diritti e garanzie. Ma siamo ben consapevoli che senza una generalizzazione del conflitto ed una visione comune il tutto può durare il tempo di fiammata, di una vertenza, di un risarcimento, di un’azione o di una manifestazione. Ma oltre gli eventi, i contro-vertici e le azioni ci domandiamo come innescare pratiche permanenti di conflitto, d’insubordinazione di vendetta precaria, di blocco della produzione e di sabotaggio di prove tecniche di sciopero sociale e metropolitano dentro e contro la precarietà. La precarietà è certo una condizione complessa ma con cui dobbiamo fare i conti perché non esistono facili scorciatoie. Giunti al sesto anno di crisi sotto il ricatto del debito, con una governance politica commissariata dalla Troika, unico vero ambito decisionale, i processi di precarizzazione hanno distrutto welfare, servizi, diritti dentro ed oltre i posti di lavoro. Non saranno certo alcune esemplari vertenze lavorative – seppur in importanti comparti strategici – a sbloccare la nostra condizione. Nella nostra esperienza – come in quelle di tante altre reti di precari che tentano di organizzarsi – abbiamo attivato, sostenuto e vinto diverse vertenze individuali e collettive. Ma innescare un processo di generalizzazione del conflitto contro la precarietà è ben altra cosa. Perché la precarietà non si abolisce con una norma, non si supera con qualche minima concessione aziendale. Se non si parte dalla propria condizione sociale diventa assolutamente ideologico fare l’ultrà delle vertenze altrui, magari inseguendole per produrre qualche forma di rappresentazione della propria esistenza come collettivo politico. Ricostruire i legami di solidarietà e complicità nella lotta, innescare punti di contatto e convergenza nell’universo della precarietà, nei diversi e segmentati mercati del lavoro, ha bisogno di tempi che costruiscono processi reali di soggettivazione sociale, ha bisogno di spazi in cui ci si riconosce in una condizione comune e generalizzata. La condizione precaria è cinismo esasperato, rappresenta il primato dell’uomo/donna che si fa impresa di se stesso/a e combatte ogni giorno nella giungla. Per parlare di ricomposizione sociale dovremmo riconoscerci, avere un linguaggio comune, praticare forme di cooperazione nella lotta. Possiamo parlare di primi esperimenti di cooperazione tre lotte nella precarietà, un respirare insieme, una prima affermazione di mutualismo. Come rovesciare addosso alla governance nazionale ed internazionale, alle imprese, al capitalismo finanziario la precarietà che viviamo sperimentando le pratiche dell’assedio permanente, dello sciopero sociale e metropolitano, del sabotaggio, del blocco della produzione, della riappropriazione diretta del welfare è la vera scommessa dei movimenti. Per essere una “minaccia” bisogna far paura uscendo dall’identitarismo. Prendiamo atto che nell’ultimo periodo ci sono stati dei processi di ricomposizione politica di alcune lotte contro le politiche di austerity, un elemento importantissimo che ha bisogno di cura delle relazioni, costruzione di momenti di cooperazione nel conflitto, ma soprattutto di affermare un piano comune e programmatico di lotta alla precarietà e alle politiche di austerity. Lo slogan “una sola grande opera casa e reddito per tutti” che sta rimbombando in tante piazze ed iniziative di lotta in Italia deve diventare un piano d’azione comune, inclusivo, capace di aggregare la composizione sociale che sta pagando le politiche di austerity. Questo significa uscire dalla logica identitaria e minoritaria delle aree politiche per sperimentarsi con l’eccedenza del precariato metropolitano che è stato il vero valore aggiunto della manifestazione del #19O. Siamo di fronte al primo movimento in Italia che si oppone alle politiche di austerità con un programma indipendente che vive nelle lotte per il diritto all’abitare, per un nuovo welfare, per diritti dentro ed oltre il lavoro, per il reddito di esistenza incondizionato inteso come orizzonte di conflitto ricompositivo delle tante precarietà, come rottura anticapitalista del dispositivo della precarizzazione della vita. Un movimento che deve essere in grado di intervenire nel dibattito politico ribaltando le narrazioni tossiche sia del lavoro di cittadinanza, della retorica della piena occupazione sia dei dispositivi workfare presentati in Parlamento da PD, SEL e M5S. Per questo bisogna prendere parole per osteggiare questi progetti di legge che cercano di sussumere le nostre rivendicazioni magari redistribuendo le briciole o salarizzando la miseria. Dopo la mobilitazione del #19O è necessario trovare la capacità di rilanciare un plan de lucha, un’articolazione europea e transazionale delle lotte, un contro dispositivo necessario per ampliare nella costituzione materiale, ben oltre i perimetri conosciuti delle organizzazioni politiche di movimento, la consapevolezza della mobilitazione permanente e biopolitica. Di generalizzazione delle rivendicazioni e delle pratiche che devono poter includere nella radicalità la prateria diffusa e non rappresentabile che può incendiare un nuovo progetto rivoluzionario. Questo ci aspettiamo dopo il #19o l’affermazione radicale della forza, del protagonismo desiderante, di pretendere e riprendere capacità discorsiva del conflitto, nei conflitti, per riappropriarsi della metropoli e di tutta la ricchezza socialmente prodotta. Per questo il plan de lucha uscito della due giorni di assemblee e workshop tematici ci sembra tracci un percorso nazionale condiviso sul terreno della rivendicazione di reddito e della riappropriazione diretta del welfare. Si diceva che il dado è tratto e siamo d’accordo. Una fase nuova si muove dentro la costituzione biopolitica delle lotte, le sollecita, le mobilita ne organizza insieme nuova produzione politica del conflitto e dell’alterità. Ovviamente siamo di fronte a probabili e interessanti proiezioni e prospettive praticabili.
Laboratorio Acrobax